“Mai fidarsi delle biografie. Troppi eventi della vita di un uomo sono invisibili. Sconosciuti agli altri come i nostri sogni. E niente da sollievo al sognatore; non la morte nel sogno, né il risveglio.”
Anne Michaels “In fuga”
Sono nato in febbraio, un mese piccolo e cattivo, ma che al volgere del suo termine può intenerirsi nei primi annunci di primavera.
Anche l’anno in cui sono nato annunciava una rinascita; erano gli anni della primavera francese, una risata vi seppellirà, dei movimenti pacifisti nordamericani, fragole e sangue, dei figli dei fiori, l’alba dell’età dell’acquario.
Una rivoluzione planetaria che ho respirato e assorbito inconsapevolmente nella mia infanzia, poi, nell’adolescenza e nella prima gioventù; il glam rock, l’underground, il grunge ma anche la pop art di Andy Wharol, ognuno ha diritto nella vita ad almeno un quarto d’ora di celebrità, l’edonismo reaganiano, la Milano da bere e Wall Street, il Yuppismo e le innumerevoli vacanze di Natale, Bill Gates, internet, l’analogico e il digitale.
Non ho studiato molto, ma almeno non me ne vanto.
Questo svantaggio è diventato rivalsa, mi ha reso curioso, avido di tutto, oggetti, luoghi, situazioni, persone, parole scritte e dette, arte in ogni forma.
In questa ricerca inquieta e onnivora mi hanno guidato il mito della bellezza e il desiderio, di emozione, la magia dei momenti irripetibili in cui entrambi si sono accesi nel mio cielo e sono passati tracciando scie luminose.
Dalla trasgressione che ha segnato la mia generazione ho cercato di distillare la creatività ed una vena di follia, che sono il mio lasciapassare per sdoganare l’ignoranza e la volgarità, l’imbecillità e la malafede.
Delle generazioni precedenti ho fatto miei i punti cardinali che devono guidare un uomo, un padre, dignità e rispetto, onestà e solidarietà: mio figlio non è solo parte di me, ma la mia memoria e il futuro del mondo.
Riesco a perdermi dietro una figura, uno sguardo, che sia quello della ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer o di una donna troppo sicura del potere del suo corpo, dietro le linee di un oggetto di lusso, il tocco di un tessuto, la gentilezza della Thailandia, la qualità della luce di Albuquerque, per poi tornare ai miei luoghi, fra terra e acqua, fra la via Emilia e il West, alla mia gente, a Vasco Rossi e Guercino, alla mia malinconia, fidata compagna, sempre pronta ad accogliermi al rientro da attimi di euforia e allegria paradossa.
Non riesco a dare un nome all’emozione, a fissarla in una immagine, una situazione, ma quello che più le e assomiglia è salire su un palco per gioco e sentirmi per qualche minuto un dio, davanti alla folla, sapendo che appena sceso mi mancherà il fiato e non riuscirò a stare in piedi.
Ho un magazzino immaginaria in cui ho affastellato idee, ricordi, immagini, appunti di viaggio che non riordinerò mai.
Amo rinchiudermi nel mio magazzino, fra oggetti incongruenti, sacchetti di carta, mongolfiere e altri palloni gonfiati, bustine di zucchero, foto polaroid, bottiglie di plastica indurite e le creature che lo affollano, cavalli, barboni di lusso, ex maratoneti polacchi, nani del cervello, ballerine e altri mostri.
Questo, e anche qualcosa di più, è tutto il mio mondo e questo è Paolo Atti.